Nella Sekiguchi Ryu, stile che pratichiamo nel nostro corso di Spada Giapponese, l’allenamento è incentrato – come in molte altre koryu – nell'esecuzione dei kata.
Talvolta capita di percepire, soprattutto nei principianti, una sorta di perplessità nei confronti di tale metodo di pratica, o quanto meno dei momenti di “attrito” tra intenderne la reale funzione e vedere soddisfatte le proprie – arbitrarie – aspettative.
Va fatta un po’ di chiarezza, esponendo quale sarebbe il modo più appropriato di approcciarsi ai kata, almeno nei nostri dojo.
"Il kata è un paradigma, non un dogma."
L’esercizio formale codificato è un modello d’indirizzo per la pratica atto a sviluppare delle abilità in colui/colei che lo esegue. Abilità applicabili, dopo aver acquisito correttamente la forma accademica, in un ampio ventaglio di situazioni variabili, trascendendo così lo scenario che il kata riproduceva originariamente.
Il kata è un simbolo di tradizione, un marchio di stile, ma finché rientra nelle categorie di “sacro” e “rigido”, finché si cercano in esso “tutte le risposte”, se ne perde il senso funzionale, e risulta naturale poi, per taluni, coglierne un’apparente inutilità, incompletezza, se non addirittura inefficacia.
Il kata va eseguito in un dato modo perché è il solo modo per conseguire determinate abilità, e non perché “si è sempre fatto così” o perché “quel modo” costituisca l’unica opzione possibile per agire/reagire in quel dato scenario.
Praticare una forma preordinata, da soli o in coppia, vuol dire lavorare sulla “meccanica”, e non sulla “dinamica” (i kata in coppia, forse, inducono a questa ultima interpretazione). Siamo nel campo della cinestetica, di come ci si percepisce nell'azione. In altre parole, tramite la pratica del kata si condiziona il proprio sistema mente-corpo al fine di sviluppare ed essere consapevoli degli automatismi, delle funzionalità, dei tempi, dei ritmi secondo il modello cinetico codificato in quel dato stile, desunto originariamente da un’applicazione empirica in uno scenario reale. Uno scenario che per sua natura è parziale, incompleto, imperfetto. Non sarebbe umanamente possibile, infatti, coprire e codificare quantitativamente e qualitativamente tutte le infinite variabili.
Il kata si riferisce ad un momento limitato nel tempo e nello spazio; la forma può concludersi con azioni apparentemente definitive oppure no. La contromossa è sempre possibile, ma poiché sono il tempo e la distanza a determinare l’efficacia di ogni tecnica, risulta palese che tale contromossa ha la sua ragion d’essere in una distanza e in un tempo diversi da quelli che nel kata vengono considerati, rivelando quindi come non pertinente la trattazione delle contro-tecniche contestualmente all'apprendimento della forma. Non a caso l’applicazione delle contro-tecniche (nella Sekiguchi Ryu ne esistono, ad esempio) è riservata a momenti d’esperienza più profonda, e comunque in momenti diversi rispetto alla pratica dei kata basilari.
Il lavoro sulla “dinamica”, che come si è detto non compete al kata in senso stretto, appartiene all'ambito del bunkai (studio delle applicazioni del kata) e delle henka (variazioni), e specie queste ultime trovano ambiente più consono negli esercizi di libera applicazione (randori, gekiken).
Eseguire un kata è sempre un’azione “sperimentale” benché preordinata e strutturata. Ogni ripetizione non potrà mai essere uguale alle precedenti o a quelle successive, e in questa unicità del momento il praticante può cogliere aspetti sempre nuovi del suo modo di eseguire, fino ad affinare con la ripetizione le abilità acquisite, in un processo di perfezionamento che di fatto non ha mai termine.
Approcciarsi nel giusto modo ai kata evita il trauma delle incorrette aspettative nei confronti di essi.
Molti si aspettano un “cosa” fare e un “perché” fare qualcosa, quando invece il kata vorrebbe guidare il praticante al “come” farla. Ovvero, la forma non insegna solo il corretto gesto tecnico, ma anche il corretto atteggiamento nell'eseguirlo.
Questo giusto atteggiamento evita inoltre di essere dei semplici “performer”, che con uniformi stirate e inamidate eseguono “religiosamente” delle cerimonie, più che esercitarsi efficacemente e autenticamente nelle arti marziali. Non si confonda mai la “forma” con la “formalità”…
Buona pratica.